Chi più di Keighley può rappresentare il settore dei videogiochi?
Geoff non è il portavoce di cui abbiamo bisogno, ma quello che ci meritiamo?
Tempo fa, facendo il mio solito scroll su Twitter, mi è capitato sotto gli occhi questo articolo: “L’’industria dei videogiochi merita un portavoce migliore di Geoff Keighley”. L’autore, Kirk McKeand, ricorda le accuse di poca integrità rivolte al giornalista canadese, che aveva accettato di farsi ritrarre tra le Doritos e la Mountain Dew, nonostante fosse evidente che non ne fosse del tutto contento.
Ai tempi, va ammesso, quasi nessuno identificò1 la questione come prodromo di quel che poi è diventato il personaggio: dominus del più importante show videoludico, i The Game Awards (e i precedenti Spike Awards), entusiasta dispensatore di trailer e world première, amico di tutti (in particolare di Kojima), ma soprattutto socio/partner dei più grossi publisher che lo aiutano a “guidare e a portare avanti la missione” dei Game Awards, in veste di advisor.
Dopo aver elencato la lunga serie di licenziamenti di massa degli ultimi anni, McKeand si chiede il perché Keighley non “faccia di più” per aiutare gli sviluppatori, dato che il suo TGA dovrebbe celebrarne il lavoro.
A mio parere, questo è il punto fondamentale che McKeand non ha compreso appieno: i Game Awards non celebrano il lavoro dei developer ma solo ed esclusivamente l’industria dei videogiochi2 di cui gli sviluppatori sono gli “utili idioti”.
Lo dico soprattutto in relazione allo spazio che questa categoria ha dentro l’ecosistema dei Game Awards, ovvero nessuno: non fanno parte della giuria che decreta le migliori produzioni e quando vengono premiati e devono pure spicciarsi a parlare perché l’ennesima World Première incombe su di loro.
Anche quando vogliono ricordare un collega deceduto.
In realtà, pure i videogiocatori non se la passano meglio in termini di rappresentanza. Keighley ha assegnato ala categoria un misero 10%3 nel computo dei voti perché potrebbero eleggere vincitori “socially enginereed”. Chi, invece, ha spazio? La stampa videoludica. Non tutta in verità, ma selezionata in base alla loro “storia di valutazione critica dei videogiochi”.
Al netto di quello che si può pensare di questo criterio, la scelta di includere solo le testate garantisce che esse diano quanta più copertura possibile dell’evento, soprattutto da parte di coloro che rivestono il ruolo di giurato.
E funziona eccezionalmente bene, infatti, altri eventi simili e molto più analoghi - per organizzazione e regolamento - agli Oscar cinematografici da cui i GOTY prendono ispirazione, sono molto meno conosciuti. Come ad esempio i DICE Awards dell’Academy of Interactive Arts&Science, che sono nati prima (1998).
Più passavano i giorni e più mi convincevo che McKeand avesse torto: l’industria dei videogiochi si merita un portavoce come Keighley. Anzi, ne è lo specchio e volevo parlarne con qualcuno più scafato di me come Simone Tagliaferri
SIMONE
Il problema di quell'articolo è che propone una visione del mondo dei videogiochi che in realtà non esiste. Parte dal presupposto che ce ne sia uno buono che vada rappresentato nella maniera giusta, quando invece il mondo dei videogiochi è quella roba là: è Keighley, che lo impersona all'ennesima potenza, ossia un’entità caotica che vive di conflitti di interesse; è una ammucchiata di ragazzini che vengono da altri ambiti e che si sono improvvisati critici.
È soprattutto un sistema che nel suo complesso non si preoccupa dell'etica o delle questioni che emergono dalla realtà, ma che esprime semplicemente se stesso come se fosse un eterno Peter Pan, che però sta a braccetto con le aziende, i Capitano Uncino di turno, che in realtà dovrebbe in qualche modo controllare. Keighley è esattamente ciò che l’informazione videoludica esprime al meglio a tutti i suoi livelli.
Ma non solo. L’industria si specchia dentro Keighley, che è diventato una figura di riferimento proprio per il suo essere riuscito a portare ai massimi livelli quelle che sono le aspirazioni medie del giornalista videoludico. No, non parlo del raccontare i videogiochi o aiutare nella comprensione degli stessi dando un punto di vista più approfondito, ma la ricerca di un'esposizione tale per cui quella macchina, che fondamentalmente ti costringe a rivolgerti a essa per ottenere il materiale con cui fare il tuo lavoro, sia in un certo senso vincolata a te e ti ripaghi.
È un sistema che esprime semplicemente se stesso come se fosse un eterno Peter Pan
Keighley è il passo successivo: è il punto massimo della carriera che il modello del giornalismo videoludico attuale può aspirare, perché ti dà questa percezione dell'essere arrivato a un livello tale per cui tu sei talmente in alto nel sistema da poter fingere di essere autonomo. Quindi, nella piramide, non sei più in basso, ma veleggi allo stesso livello o a un livello comunque più alto rispetto al giornalista videoludico medio e all'influencer medio.
Lui ormai è l'evento, quindi è diventato parte dello show e quelli che vediamo come problemi in realtà sono i suoi punti di forza. Keighley ha sempre lavorato come se fosse una specie di PR anche quando faceva il giornalismo. Ha intessuto certi rapporti, li ha mantenuti e poi li ha sfruttati per raggiungere i vertici del sistema. Non si è mai posto come voce critica, ma è sempre stata una voce armonica rispetto all'industria. Come tale è stato ricompensato, diventando poi l'epifenomeno di qualcosa che esiste anche ai livelli più bassi. Parlo di quel giornalismo d'assalto che cerca di entrare nel settore e che guarda a lui come punto di riferimento, pur quando lo attacca.
MARA
Il nostro è un mondo dove le notizie si ricevono solo da una fonte, ovvero dai publisher che le elargiscono quando e come vogliono e, in molti casi, impongono anche come diffonderle. Tanto da creare situazioni paradossali come la pubblicazione in contemporanea della stessa foto da parte di redattori o influencer per annunciare l’arrivo dei codici review, delle collector o dell’oggetto tecnologico del momento neanche dovessero venderla.
Fino a qualche anno fa, queste operazioni commerciali sfioravano il “cringe”. Ora, si sono perfezionate e cesellate soprattutto grazie all’esperienza comunicativa dei content creator. Alcuni di essi sono riusciti a travestire queste iniziative pubblicitarie come un riconoscimento pubblico del proprio lavoro di giornalista o divulgatore videoludico da parte dei publisher. Sicuramente c’è un riconoscimento ma, se mi consenti, non è dovuto a supposte capacità critiche quanto più a coefficienti di conversione o potere di influenzare il proprio pubblico su un determinato prodotto o narrazione.
Sebbene ci sia una certa omogeneità di comportamenti tra i giornalisti e gli influencer, la questione dei leak riguardanti Rockstar Game e trattati da Jason Schreier ha posto un discrimine - per quanto flebile - tra questi due mondi.
Un discrimine determinato sulla opportunità di diffondere o meno informazioni non provenienti dai publisher. Il conflitto tra queste due fazioni si è reso palese in ragione del fatto che i giornalisti sono tenuti a dare le notizie e quindi possono, di tanto in tanto, dispensarsi dal dover seguire il “naturale corso” delle informazioni.
In Italia, la pervicacia nel censurare e criticare prima Schreier e poi le testate che hanno ribattuto le rivelazioni del giornalista statunitense, mi ha parecchio incuriosito sia per il tono sia per le argomentazioni utilizzate.
Alcuni di essi sono riusciti a travestire queste iniziative pubblicitarie come un riconoscimento pubblico del proprio lavoro di giornalista o divulgatore
SIMONE
La questione leak si risolve, secondo me, nell'assunzione da parte di alcuni personaggi del punto di vista della multinazionale, dell'editore, del grande editore, nel momento in cui, l'assunzione di quel punto di vista, che per loro è costante, gli porta dei vantaggi.
Quindi, se stanno dove stanno, lo devono all'assunzione programmata di quel punto di vista. E qui bisognerebbe introdurre anche il discorso pubblico, perché il pubblico paradossalmente favorisce questa funzione da cani di riporto del potere, che hanno i vari influencer Tizio, content creator Caio e quant'altro, e tende invece a marginalizzare le voci più critiche. Perché le voci più critiche sono, in un certo senso, dirompenti per quel sistema, proprio in quanto portatrici di una preparazione più alta che contrasta con il discorso dominante.
Per voci critiche non intendo solo gente che sta lì e si mette in piedi sopra il secchio a urlare contro i giornalisti, o a dare addosso a Keighley o a chi per lui, ma parlo proprio di persone che, con il loro modo di scrivere e trattare certi argomenti contrastano lo status quo, andando contro il conformismo con cui solitamente si affrontano le “questioni del giorno” nell’ambito dell’informazione di settore.
Non per niente il tuo articolo su Stellar Blade è stato tanto discusso: perché assumeva un punto di vista differente, che rompeva il discorso collettivo assestatosi su certi argomenti di comodo e tesi che richiedevano solo il porsi come tifosi per essere accettati nel coro.
Il pubblico paradossalmente favorisce questa funzione da cani di riporto del potere […] le voci più critiche sono dirompenti per quel sistema.
In questa situazione il pubblico è fondamentale nel mantenere lo status quo, perché sempre più spesso si mostra come massa e assume acriticamente il punto di vista della multinazionale. Lo considera giusto a priori e produce argomenti per difenderlo, anche quando è indifendibile, sfociando spesso in un’aggressività fuori misura.
Con questo non voglio dire che la multinazionale, qualsiasi essa sia, dice sempre cose sbagliate, e quindi non ci deve essere mai, come posso dire, un adeguamento, cioè un convenire su quello che fa o quello che dice.
Dico semplicemente che nel momento in cui il giornalista o l'influencer ne assume sempre la difesa, fa da cuscino, cerca di difenderla dagli urti, di porsi come scudo umano fondamentalmente tra l'azione, l'atto, il comportamento scorretto e il pubblico, e il pubblico accetta questa situazione, a quel punto si crea un cortocircuito. E questo cortocircuito non viene risolto a livello strettamente dialettico tra le parti.
Rimane quindi continuamente aperto un discorso che viene gestito da delle figure di potere che si occupano di propagarlo su tutto il sistema. Banalmente potremmo citare i reparti marketing, che però di loro ‘eseguono gli ordini’ e gestiscono quello che è il messaggio che vuole propagare l'azienda.
E lo fanno nel modo più efficace possibile, usando tecniche psicologiche, architettando campagne di massa e così via, che vengono riprese criticamente da media e pubblico. Pensa alla corsa di una testata come IGN per avere dei trailer in anteprima, lì dove per ottenerla finisci per entrare fisiologicamente in un rapporto economico con l’editore di turno, che non sarebbe considerato sano… se il sistema fosse sano.
Il gatekeeping dei valori produttivi
MARA
Un altro punto dell’articolo in questione che mi ha lasciato piuttosto perplessa è stata la richiesta di McKeand di un maggior impegno da parte di Keighley a favore di coloro che sono stati colpiti dai licenziamenti di massa, argomento che pare essere entrato nell’agenda delle priorità del mondo videoludico. C’è da dire che i numeri sono talmente spaventosi che sono impossibili da ignorare e penso sia naturale che se ne parli ma che ci sia un reale interesse per le condizioni degli sviluppatori la vedo piuttosto dura.
SIMONE
Il problema è che non si è voluto vedere qualcosa che stava arrivando, non da mesi, ma da anni. Ricordo che toccai l'argomento già all'epoca del lancio di Max Payne 3 di Rockstar Games. Vendette ben 5 milioni di copie. 5 milioni di copie sembrano un'enormità, ma in realtà Rockstar disse che non era rientrata dei costi di sviluppo, o che quantomeno non era soddisfatta dei risultati prodotti dal gioco a livello economico.
Al che mi posi la questione: ma se un gioco di grande richiamo che vende 5 milioni di copie non riesce a rientrare dei costi di sviluppo, cosa accadrà in futuro con l’inevitabile crescita degli stessi? Purtroppo, il problema all'epoca non fu affrontato. Non solo non fu affrontato, ma non fu recepito in nessun modo dalla stampa di settore, che fece passare la cosa come se fosse un caso eccezionale, senza vederla come un monito per quello che rischiava di accadere in futuro.
Questo, se vogliamo, è collegabile al problema di cui parlavamo prima, cioè il fatto che i giornalisti assumono sempre il punto di vista delle multinazionali, tanto che hanno cominciato a parlare di sostenibilità solo nel momento in cui alcune persone importanti hanno tirato fuori l'argomento. Paradossalmente, non quando Shawn Layden, l’ex presidente di PlayStation lo disse chiaramente dopo essersi allontanato dalla compagnia, parlando di un mercato dei videogiochi AAA insostenibile nel giro di pochi anni. È stato ignorato e le sue parole sono rimaste appese, con molti che le deridevano facendosi forti dei dati di vendita dei giochi più diffusi al momento.
La stampa di settore ha iniziato a parlarne solo nel momento in cui le stesse multinazionali hanno deciso che l'argomento doveva essere messo in primo piano per giustificare determinate scelte, ossia per portare avanti politiche di licenziamenti e per cambiare i modelli economici dei giochi, andando sempre più verso i live service, con tutto ciò che questo comporta.
Il modello live service non è semplicemente il videogioco supportato nel corso degli anni, ma introduce una serie di problematiche che cambiano notevolmente il rapporto tra il videogiocatore e il videogioco, e i metodi con cui gli editori vendono questi videogiochi. Magari ne riparleremo in un’altra chiacchierata.
Detto questo, la stampa di settore si è accorta del problema solo nel momento in cui è scoppiato, non quando ha cominciato a manifestarsi o ha dato i primi segnali, ormai anni fa. Anzi, chi provò ad aprire la discussione di fronte alle avvisaglie iniziali fu tacciato di essere un menagramo, uno che non capiva niente, uno che non vedeva le magnifiche sorti e progressive che ci aspettavamo.
MARA
Shawn Layden è stato l’ultimo delle Cassandre e fu molto chiaro sulla questione: i giochi sono troppo lunghi, troppo grossi e troppo fotorealistici per poter essere sostenibili economicamente, in un mercato che non sta crescendo numericamente e non può coprire le attuali cifre folli di sviluppo.
Al netto delle indignazioni di rito, il mondo dell’informazione e dell’influencing, più o meno inconsapevolmente, è complice in questa corsa al “Bigger, Stronger, Faster”. Come? Basta leggere qualunque recensione o analisi che, tra una supercazzola e l’altra, premiano o puniscono sulla scorta di parametri meramente quantitativi.
Peggio ancora quando si prodigano in paragoni del tutto scriteriati tra IP con budget totalmente diversi dai quali escono sempre vincitrici le opere più costose. Una pratica che tu stesso, Simone, definisti deleteria perché il suo esercizio trasforma il creare videogiochi in uno sfoggio di forza bruta economica, piuttosto che un’attività creativa tesa a produrre esperienze soddisfacenti.
Una tendenza che costringe gli sviluppatori e i publisher a dover far fronte al gatekeeping della “production value”, investendo sempre più denaro senza la certezza di poter rientrare dell’investimento. Tant’è che alcune delle più blasonate firme videoludiche ne fanno un elemento di giudizio talmente travolgente da coprire mancanze gravi in quei comparti che si rilevano come pilastri del genere a cui afferiscono le opere in esame. Pensa alle polemiche sulla lunghezza o sul gameplay di Senua 2: troppo corto, combat system “non evoluto” o mancanza dell’edizione fisica.
Il mondo dell’informazione e dell’influencing è complice di questa corsa al “Bigger, Stronger, Faster”
SIMONE
E questa tendenza, purtroppo, nonostante tutti i discorsi che si fanno, fa capire come non sia stato recepito il problema, quantomeno a livello di andare alla ricerca di modalità per affrontarlo veramente.
Faccio l'esempio della recensione di Banishers, il recente titolo di Don’t Nod. Molti lo hanno criticato per il sistema di combattimento, confrontandolo a quello di God of War, che è un titolo che sarà costato almeno quattro volte di più e che possiamo considerare assurdo in termini. Perché?
Perché da una parte vai a marginalizzare quelle che sono le caratteristiche più preminenti del gioco, facendo un confronto che non ha senso a livello economico. Sicuramente Banishers ha un sistema di combattimento peggiore, anche se non disprezzabile come vorrebbero alcuni.
Però nel momento in cui metti sullo stesso piano un gioco che sarà costato 50 milioni di dollari con uno che ne sarà costati più di 200, crei un enorme problema agli stessi che i giochi li fanno. Perché? Perché non possono risolverlo con la capacità di sviluppo. L'unico modo per raggiungere quel livello è l'investimento di una cifra altrettanto elevata per acquisire sviluppatori specializzati in quel sistema, che lo possano curare, oltre a quella che è la cura normale che può portare un singolo sviluppatore.
Quindi, il discorso critico finisce per incentrarsi su quella che è, come spesso accade, una questione eminentemente quantitativa… e alla critica videoludica le questioni quantitative piacciono tantissimo perché sono facili: è facile dire che dentro una botte c'entra più acqua che dentro a un bicchiere e così si porta a casa la pagnotta con nulla, cercando più che altro di azzeccare il metascore. Tutto il resto viene oscurato o marginalizzato, vuoi perché non gli è utile, vuoi perché spesso non riescono a focalizzarlo.
MARA
L’altro giorno sentivo che Senua 2 dovrà necessariamente avere un combat system più complesso. Perché? Il primo capitolo raccontava la storia di una ragazza con evidenti problemi psichiatrici che deve venire a patti con la sua malattia e la perdita dell’unica persona che le ha dimostrato amore e comprensione.
Tutta l’opera riflette questa particolare caratterizzazione della protagonista, dal combattimento agli enigmi, e per via della funzionale ripetitività, il gioco non dura più di 10 ore per non annoiare i giocatori. E indovina di cosa sono lamentati gli addetti ai lavori, dopo l’annuncio che la longevità del secondo capitolo era pari a quella del primo? “Troppo corto”. Mi pare piuttosto lapalissiano che a molti sia balenata l’idea che, con i fondi di Microsoft, Hellblade 2 dovrà essere un progetto nettamente più grande e con più contenuto, indipendentemente da quello che di straordinario era stato già fatto con i fondi limitati del primo.
E si ritorna alla tua riflessione precedente, ovvero, che è più facile giudicare su meri elementi quantitativi e quello che si discosta da questo orizzonte come i giochi creati secondo concetti di organicità e armonia, non vengono compresi se non direttamente bocciati.
Questo tipo di opere, tra l’altro, consente di fare giochi più piccoli, più curati e meno costosi in termini economici. C’è da dire che, occasionalmente, questa corsa al “graficone” si ferma davanti a determinate software house. Davanti a queste, quelle regole non valgono più e partono le disquisizioni tra grafica ed estetica, autorialità e giochi “sartoriali” (ti giuro l’ho sentito dire).
A casa mia, questo si chiama doppio standard o meglio, fare due pesi e due misure. Non ho nulla in contrario a fare determinati distinguo, ma questi appaiono applicati in modo totalmente arbitrario a seconda delle preferenze personali o della convenienza del commentatore di turno. L’ultima trovata è utilizzare il concetto di autorialità per coprire qualunque tipo di magagna senza fare nessun tipo di sforzo intellettuale nel comprendere se le scelte fatte dal creatore abbiano un senso o logicità nel quadro generale dell’opera che comprende ogni suo singolo aspetto.
Invece, le analisi continuano a essere fatte a compartimenti stagni, senza nessun tipo di riguardo a quelle che sono le dinamiche generali o lo scopo del gioco. Per farla breve: visione organica e armonica non pervenuta.
“E’ il mercato, bellezza, e tu non puoi farci nulla”
In questi anni, sono stati spesi fiumi d’inchiostro digitale nel tentativo di giustificare questo tipo di andazzo facendo leva su quanto sia difficile la sostenibilità di una editoria/creazione di contenuti priva di conflitti di interesse e, per questo, qualunque riflessione in merito - anche solo di ammissione che il problema esista - viene derubricata, nel migliore dei casi, a visione radical chic: sognatori che non tengono conto della realtà dei fatti, persone a cui bisogna ricordare che il mondo non funziona secondo i principi che enunciano.
Una narrazione che funziona e ha presa: è il mercato, bellezza, e tu non puoi farci nulla…il problema è che il mercato li ha smentiti.
Ma nessuno lo dice
Questa però, è un’altra storia da raccontare.
Tra i pochi menzioniamo Rab Florence, autore per Eurogamer di questo pezzo: https://www.eurogamer.net/lost-humanity-18-a-table-of-doritos
In una intervista concessa a Inverse nel 2016, fu proprio Keighley a parlarne: https://www.inverse.com/article/24040-the-game-awards-geoff-keighley-2016-cable-streaming-vr
La ripartizione nel peso dei voti è esposta in una sezione apposita del sito ufficiale della manifestazione: https://web.archive.org/web/20221111023748/https://thegameawards.com/faq